35° anniversario della tragedia di Vermicino, un pompiere racconta…

Intanto che gli anni di servizio scorrevano tanti altri momenti di tensioni e di emozioni diverse hanno costellato la mia vita professionale.

Gli anni decorsi a seguire con il passaggio a Capo squadra, l’assunzione della responsabilità di Capo Posto di partenza, hanno segnato tante altre significative esperienze, sempre gestite con il senno di chi doveva per primo dare l’esempio.

È pur vero che mai detto fu più veritiero: il Capo Posto fa la squadra, la squadra fa il Capo Posto.

Doveva arrivare il famoso episodio dell’intervento sul pozzo di Vermicino, per avvertire un terzo brivido lungo la schiena.

Non desidero descrivere i particolari di carattere generale che hanno fatto da preludio alla vicenda.

La maggior parte di chi leggerà questi miei ricordi li ha vissuti con trepidazione ed angoscia incollato di fronte al televisore nei giorni 9-10 e 11 giugno del 1981.

Per coloro che volessero approfondire o conoscere meglio alcuni aspetti di quella tremenda tragedia che coinvolse tutta la nazione, l’onorevole Walter Veltroni, il giornalista Massimo Gamba e lo speleologo Maurizio Monteleone hanno scritto sui loro libri dedicati ad Alfredino Rampi, con dovizia di particolari meglio di me.

Ricordo soltanto che dopo i vari tentativi infruttuosi espletati, con la collaborazione di tutti gli intervenuti sul posto, il Comandante ing. Pastorelli decise di far trivellare il pozzo parallelo dal quale si sarebbe potuto raggiungere Alfedino.

Era necessario una volta raggiunta la profondità utile di circa 26 metri, scavare un tunnel trasversale che sbucasse nel primo pozzo dove era scivolato il bambino.

Una operazione delicatissima dal punto di vista tecnico in quanto una volta scesi sottoterra eravamo totalmente privi di ogni supporto logistico utile per la precisa definizione dell’orientamento.

Ricordo ancora che mentre fervevano gli scavi, i maggiori esponenti del Corpo sopraggiunti sul posto, si consultavano per decidere a chi affidare quel compito che si presentava oltremodo difficile, urgente e altrettanto rischioso, poiché sarebbe stato impossibile adottare idonee misure di sicurezza per l’operatore.

Data la delicatezza dell’intervento, mi risulta che nessuno azzardò l’ipotesi di indicare un nome specifico, per cui avvertita questa necessità, informai il funzionario di guardia presente che essendo io il capo posto di prima partenza era di mia competenza affrontare il problema e che quindi dovevo esser io a scendere nel pozzo e credo che qualcuno, ascoltando le mie parole, abbia tirato un sospiro di sollievo.

Fui lusingato che non ci fosse alcuna proposta alternativa, a dimostrazione della fiducia riposta dai miei superiori alle mie capacità.

Una volta sceso nel pozzo parallelo, le sollecitazioni dello staff medico mi esortarono a fare più in fretta possibile.

Dopo aver accertato che la quantità di ossigeno presente mi consentiva di respirare agevolmente, mi liberai della maschera, del casco e di tutto il groviglio di tubi e cordini con i quali ero stato imbracato, per potermi muovere più agevolmente.

Pensai subito ad ottenere un minimo passaggio per retrocedere una volta raggiunto Alfredino.

Scavavo senza pensare al pericolo che incombeva sulla mia testa, avanzando nello stretto cunicolo che man mano mi avvicinava alle grida del bambino, sempre più fievoli.

Solo quando a seguito delle vibrazioni del martello pneumatico che stavo usando, il bambino spaventato ricominciava ad urlare, mi tornavano in mente i due figli che a casa mi aspettavano ignari nella sicura intimità familiare.

Questi pensieri mi moltiplicarono le forze, mi consentirono di scavare anche con le mani, quando il martello si guastò e dovetti aspettare che mi calassero un altro attrezzo elettrico.

Man mano che mi avvicinavo sentivo sempre più distintamente la voce del bambino e cominciai, mentre continuavo a scavare, a parlargli, cercando di tranquillizzarlo… mancavano pochi decimetri di terra quando lo sentii improvvisamente tacere.

Gli ultimi minuti furono una sorte di lotta contro il tempo, pensavo contemporaneamente a quello che facevo: come non far cadere i frammenti di terriccio addosso al bambino, come agire per raggiungerlo senza fargli del male!

Tutto questo, immaginando già la soddisfazione di deporlo nelle braccia amorevoli dei suoi genitori ai quali, nel profondere loro un poco di serenità, avevo fatto promessa che l’operazione di recupero sarebbe riuscita.

Finalmente, sfondato l’ultimo diaframma con estrema delicatezza, ma con immensa soddisfazione infilai attraverso l’apertura prima il braccio con la torcia e poi la testo; fu in quel momento che mi resi conto che il bimbo era scivolato ancora più in basso e che per me, ormai, sarebbe stato impossibile raggiungerlo.

Un brivido gelido mi percorse tutto il corpo e cominciai a tremare, sentii per un momento mancarmi le forze.

Quando comunicai, con al voce rotta dallo sconforto, la triste notizia alla radio portatile, il Comandante Pastorelli incredulo, mi ordinò di apprestarmi alla risalita, credendo per un momento che in preda alla stanchezza, potessi essermi sbagliato.

Molti ricorderanno il triste epilogo della vicenda, che per lungo tempo ha segnato per me e per quelli che si sono prodigati in una coinvolgente quanto infruttuosa ricerca di soluzione, lasciando un solto indelebile nella propria esistenza.

Non mi posso esimere di rinnovare ancora una volta il mio saluto a coloro che furono presenti durante lo svolgimento di quell’intervento; parlo degli speleologi del soccorso alpino: Tullio Bernabei e Maurizio Monteleone, con i quali nacque una sincera amicizia.

Per Angelo Licheri, non basterebbe un fiume di parole per ricordarlo ed ogni volta che ho occasione di rivederlo, inevitabilmente mi sale un groppo alla gola.

Fu una grande emozione, dopo essere risalito per la seconda volta dopo aver scavato con l’aiuto di un aitante vigile della mia squadra Manlio Buffardi, sentire che il Presidente della Repubblica Sandro Pertini voleva conoscerci personalmente.

Ci demmo una rassettata alla meglio e quando ci accompagnarono in sua presenza, egli abbracciandoci come farebbe un padre ad un bravo figlio, ci disse “Bravi ragazzi, siete l’onore della nostra Nazione”.

Salutammo militarmente e mentre tornavamo verso la nostra postazione, il giovane Buffardi non seppe contenere l’emozione e sbotto in lacrime.

 

Maurizio Bonardo

Email

L'incendio del Teatro La Fenice di Venezia
l'incendio del teatro la fenice di venezia
L'alluvione di Firenze
L'alluvione di Firenze del 4 novembre 1966
Vermicino - Tragedia di Alfredino Rampi
35° anniversario della tragedia di vermicino
Il Terremoto in Friuli Venezia Giulia
terremoto del friuli venezia giulia